Dati

L'occupazione femminile è in diminuzione, anche se ha tenuto meglio di quella maschile. La differenza sembra essere determinata da un aumento dei lavori femminili meno qualificati e sottopagati. E' uno dei dati che sono emersi dagli Stati generali del lavoro delle donne in Italia (Cnel)

Il lavoro femminile
ai tempi della crisi

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All’inizio sembrava che la crisi riguardasse di più gli uomini. L’ipotesi era basata sulla consapevolezza che i settori più colpiti erano quelli che impiegavano principalmente gli uomini, mentre quelli tipicamente femminili sembravano più al riparo. A riequilibrare la distribuzione delle sventure sono intervenute un po’ dappertutto le politiche pubbliche attraverso piani di austerità generalizzati che hanno colpito l’occupazione pubblica, dove per lo più sono impiegate donne, e capacità di comprare servizi da parte delle famiglie, quei servizi, ancora una volta, tipicamente svolti da donne. Su InGenere abbiamo dedicato un intero dossier alla comprensione di come tutto ciò si sia realizzato in Europa, mentre degli Stati uniti ha scritto Francesca Bettio, indagando non solo “il genere della crisi” ma anche quello delle manovre di sostegno all'economia. Sul caso italiano, le evidenze dei peggioramenti quantitativi e qualitativi sono state discusse in occasione degli Stati generali del lavoro delle donne in Italia organizzati dal Cnel. In particolare nella relazione presentata da Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento Statistiche sociali e ambientali dell'Istat, vengono messi in evidenza diversi dati preoccupanti, a cominciare dall’inversione di tendenza  determinata dalla crisi economica. Ne diamo qui una sintesi, rinviando al testo completo per maggiori dettagli.

La crisi, ha spiegato Sabbadini, ha interrotto il processo positivo che era partito  dagli anni Novanta: dal 1990 al 2008 l’occupazione femminile cresce e la maggior parte dei posti di lavoro aggiuntivi vengono occupati da donne, anche se il trend positivo riguarda quasi esclusivamente il centro-nord e in misura assai minore il sud. Poi però arriva lo stop. Dal 2008 al 2010 l’occupazione femminile è diminuita di 103mila unità (-1,1%), mentre il 2011 segna un ulteriore peggioramento della situazione delle giovani, con 45mila occupate in meno nei primi tre trimestri dell’anno. Il tasso di occupazione femminile resta al penultimo posto in Europa: al 46,1% nel 2010, appena sopra Malta. Un dato particolarmente desolante se scorporato su base territoriale: nel sud d’Italia il tasso di occupazione scende al 30,5% rispetto al 56,1% del nord, ed è più grave per le donne con bassi livelli di istruzione, che sono occupate nella misura di un 28,3%. Certo la situazione è difficile anche per gli uomini, tra i quali solo nel 2010 sono andati persi 155mila posti di lavoro rispetto all’anno prima, pari all’1,1% in meno in un solo anno. 

Il nostro mercato del lavoro si rivela particolarmente difficile per le donne fin dall’inizio della carriera lavorativa, e anche ottenere alti livelli di istruzione non le mette al riparo dallo svantaggio di genere. Se si considera la fascia d’età 18-29 anni, il tasso di occupazione femminile è del 35,4% rispetto al 48,4% dei coetanei maschi, le donne sono pagate meno (tra i dipendenti lo stipendio netto risulta di 892€ per le donne e 1.056€ per gli uomini), e le laureate sono più sottoutilizzate: il 52% delle donne con un titolo accademico svolgono un lavoro per cui ne basterebbe uno più basso, contro il 41,7% degli uomini nella stessa situazione.

Figura 1: Tasso di occupazione femminile per titolo di studio, ripartizione geografica e classe d’età, anno 2010.

Fonte: relazione di Sabbadini (Istat) per Stati generali sul lavoro delle donne in Italia, Cnel

A tutto ciò si aggiunge la maggiore precarietà che caratterizza il lavoro femminile rispetto a quello maschile, con un 35,2% di donne giovani con contratti a termine o di collaborazione, contro il 27,6% dei maschi. In concreto questo vuol dire che alle donne toccano più orari atipici e meno tutele. Ma vuol dire anche più culle vuote, con ripercussioni demografiche che non possono non essere considerate nella loro rilevanza pubblica.

Le cose non migliorano nemmeno dopo la fase iniziale e persiste per tutta la vita lavorativa la sottoutilizzazione rispetto al titolo di studio, più grave per le donne e per le laureate, fenomeno che si registra per il 40% tra le donne con laurea contro il 31% dei maschi. Anche lo stipendio rimane squilibrato per tutto il resto della carriera, con una differenza di circa il 20% tra i dipendenti e le colleghe.

Figura 2: Retribuzione netta dipendenti full-time laureati per genere e classe d’età, anno 2010.

Fonte: relazione di Sabbadini (Istat) per Stati generali sul lavoro delle donne in Italia, Cnel

Il divario è inoltre particolarmente accentuato tra chi è in possesso di una laurea: tra gli occupati full-time, la retribuzione mensile netta delle laureate è di 1.532€ contro 1.929€ dei laureati.

A queste condizioni si spiega anche il diffuso scoraggiamento delle italiane, che in percentuale altissima hanno smesso di cercare un impiego (il tasso di inattività femminile in Italia è del 48,9%, mentre nel resto d’Europa è del 35,5%). Ma ancora molte delle inattive si dichiarano disponibili a lavorare se il lavoro lo trovassero, e ancora una volta si tratta di una quota assai più alta di quella europea, precisamente quattro volte più alta (16,6% le italiane contro il 4,4% della media europea. Figura 3).

Figura 3: Quota delle donne inattive tra 15 e 74 anni che “non cercano attivamente lavoro ma sono subito disponibili a lavorare”

Fonte: Relazione di Sabbadini (Istat) per Stati generali sul lavoro delle donne, Cnel

Purtroppo le conseguenze determinate dalla crisi economica sull’occupazione femminile in Italia non sono solo quantitative. Spulciando tra i dati presentati dalla dirigente Istat emergono anche alcune evidenze di un peggioramento qualitativo del lavoro delle italiane: nello stesso biennio 2008-2010 fra le donne l’occupazione qualificata è diminuita di 270mila unità, mentre i lavori non qualificati hanno fatto registrare un +218mila unità. Inoltre la stessa relazione segnala la crescita della segregazione orizzontale e verticale delle donne, che dunque continuano a essere escluse da ruoli di responsabilità e confinate in determinati settori occupazionali. Altre fonti Istat segnalano che dal 2009 la diminuzione dell'occupazione maschile è stata maggiore rispetto a quella femminile, perciò si potrebbe ipotizzare che le donne hanno tenuto meglio anche perché si sono accontentate di posizioni più umili.

È inoltre l’aumento del carichi di lavoro sulle spalle delle singole donne, che non sono state alleggerite dei compiti di cura nemmeno a fronte del progressivo ingresso nel lavoro retribuito. Per rendere evidente questo cambiamento la relatrice propone un parallelismo tra diverse generazioni di donne. Una donna nata nel 1940, raggiunti i 40 anni d’età, poteva mediamente contare su una rete di altri 9 adulti con cui condividere la cura di bambini e anziani, mentre una donna nata nel 1970 può contare solo su altri 5 adulti. Le prestazioni di cura sono inoltre più gravose per la seconda a causa dell’allungamento della presenza di genitori anziani in famiglia, tanto che per la prima era in media di 12 anni e per la seconda di 22. Quando poi si vanno a valutare i motivi degli svantaggi accumulati dalle lavoratrici, accanto all’esclusiva pertinenza femminile del lavoro di cura (per esempio il 30% delle madri smette di lavorare per motivi familiari contro il 3% dei padri), emerge anche la forte incidenza delle interruzioni della carriera lavorativa. Due aspetti che convergono quando si parla di abbandono forzato del posto di lavoro alla nascita di un figlio. Nella relazione c’è anche una stima del fenomeno delle dimissioni in bianco: negli ultimi anni 800mila donne sono state costrette a lasciare il lavoro a causa di una gravidanza, una pratica imposta in misura maggiore alle generazioni più giovani, tanto che si passa dal 6,8% delle donne nate fra il 1944 e il 1953, e il 13,1% delle nate dopo il 1973.